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CARTACEO: Intervista a Franco S.

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Intervista a Franco S.
Franco S. nasce a Fiume nel 1936. Nel 1948 parte alla volta dell'Italia con il padre, parrucchiere, la madre e il fratello. Dopo una breve sosta al Silos di Trieste è destinato al Centro Raccolta Profughi di Marina di Massa, dove resta fino al 1953, anno in cui si trasferisce a Torino, prima alle Casermette di Borgo San Paolo, poi al Villaggio di Santa Caterina a Lucento. Appassionato di calcio, riesce a trasformare la sua passione in professione: esordisce come portiere in alcune squadre dilettentistiche piemontesi per poi passare a club più titolati come Sampdoria, Sambenedettese e Torino, dove approda nella stagione 1966-67 e vi resta ricoprendo il ruolo di secondo fino al campionato 1973-74, anno del suo ritiro. Dopo il calcio giocato ha avuto alcune esperienze come allenatore. Oggi vive tra Trieste e Chieri, dove è stato intervistato il 20 ottobre 2009. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Allora, io son nato a Fiume il 9 settembre 1936. E nel '48 noi siamo venuti via. Però un po' di tempo prima io ero dai miei nonni, perché c'era i bombardamenti e cose così. Però siam partiti nel '48 e siamo venuti a Trieste e da Trieste ci han destinati a Marina di Massa."

2) Ho capito. Questo, se non le spiace, lo vediamo dopo. Io vorrei però solo sapere qualcosa sulla sua famiglia d'origine: quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.: "Ah...Mio papà aveva un negozio per parrucchiere per uomo e signora sul ponte di Sussak. Però prima eravamo fuori, eravamo a Torretta, dove la prima bomba ha preso proprio il negozio di mio padre, perfetto! Poi siamo andati giù, e ci siam trasferiti e siamo andati di fronte alla capitaneria di porto: eravamo io, mio papà, mia mamma e mio fratello, che è del '40. E noi abbiamo vissuto lì così, mio padre aveva sto negozio, stavamo bene, io andavo a scuola alla città vecchia...Poi mio padre era fissato che io suonassi il violino, e avevo cominciato a suonare il violino e tutto quanto solo che è arrivato un certo punto che non potevamo più vivere lì [a Fiume], perché non si poteva uscire la sera, se eri antipatico a qualcuno sparivi: mio padre ho rischiato di non vederlo perché aveva prestato un impermeabile a uno che affittavamo la camera lì e c'era un po' il sospetto, e meno male che hanno detto tutti e due la stessa cosa e siam riusciti [a cavarcela]. Poi abbiam chiesto di uscire, [ma] per uscire dovevamo comportarci bene perché c'era il capo casa, e mi ricordo che dovevamo andar tutti quanti, alla domenica, a fare la strada del popolo: c'era sta strada, e tutta la gente doveva andare lì e anche noi dovevamo far vedere che eravamo interessati. E ci han mandato via a me, mia mamma e mio fratello e mio papà lo han tenuto lì e lo han mandato via una settimana dopo, perché se sapevano che noi parlavamo male o questo o quell'altro...Erano sospettosi da matti! Ci hanno fatto la fogna, come si suol dire, mia madre l'han guardata dappertutto."

3) Ma questo è successo alla dogana, prima di partire...

R.: "Si, si, quando eravamo nel treno, e anche lì una fifa della madonna! Avevamo 500 Lire nascoste nelle scarpe di mio fratello, che era piccolino e diceva: ah, c'ho male! E noi [gli rispondevamo]: sta zitto!"

4) Quindi voi non siete riusciti a portare con voi tutto, avevate delle limitazioni...

R.: "Niente, noi siamo venuti fuori così, avevamo un po' di mobili che poi sono andati distrutti e niente, siamo arrivati a Marina di Massa che c'era un androne così [grande] e siccome non c'erano ancora i divisori, c'erano delle stanze divise che ci stava un letto, il tavolo per mangiare e la spiriti era, che io per dormire dovevamo tirar fuori il tavolo e far scendere un materasso che dormivo per terra. E siamo arrivati lì [a Marina di Massa] e ci han messo in un angolino con tre materassi distesi per terra. Dopo ci han dato sta stanzetta e lì siamo stati cinque anni; io nel frattempo per guadagnarmi un po' di soldi andavo a vendere le pantofole in bicicletta a Sarzana, Forte dei Marmi e Massa, mi davo da fare così. Poi nel frattempo, siccome lì a Marina di Massa non c'era né lavoro né niente, noi avevamo un mio nonno che era in Francia e abbiam deciso di andarlo a trovare per vedere se lì si poteva fare [qualcosa]. Siamo andati lì e siam stati otto mesi, abbiam cominciato ad andare a scuola e così io ho dimenticato l'italiano: non sapevo né l'italiano né il francese, sono tornato, mi han fatto un esame per vedere se ero in quinta e non sapevo neanche la capitale d'Italia! Allora mio papà mi ha preso e mi ha mandato in collegio a Cividale e lì mi sono inquadrato un po'. Poi a Marina di Massa andavo tutte le mattine in bicicletta da Marina di Massa a Massa a scuola: ho fatto fino alla terza avviamento, che io a scuola non ero mica tanto [bravo]! Son stato promosso perché il professore di ginnastica mi ha detto: se salti un metro e settanta ti faccio passare. Cosa ha detto? Mi son messo a saltare e mi ha dato una mano, ecco. Sono arrivato a Torino. A Torino il primo lavoro sono andato alle Ferriere, d'estate a pulire le macchine, poi sono andato in via Cigna a lavorare in un'officina: io avevo fatto la terza avviamento e pensavo chissà che cosa, invece mi hanno messo a pulire! Facevamo i copertoni, gli stampi per i copertoni dei camion, e ogni angolino dovevo fare un forellino con una punta fine fine... E lì mi annoiavo... Nello stesso tempo c'era lì un mio amico - che io dovevo andare alla Fiumana ma ero arrivati tardi - e lui è andato a Ciriè [a giocare a calcio]. Lui è andato a Ciriè e mi ha detto: vieni a provare a Ciriè, e allora siamo andati a Ciriè, abbiamo preso il trenino là in via Lanzo, la Ciriè-Lanzo e sono arrivato lì e mi hanno messo in porta. Ero senza scarpe con una maglietta, e mi son messo lì a petto nudo e ho cominciato [a parare]. Perché io son nato portiere, ma veramente, avevo la predisposizione. Dove andavo a giocare a me mi mettevano sempre in porta: nella strada, sempre in porta! Sono arrivato lì e come mi hanno visto mi hanno preso subito. Mi hanno preso e quell'anno lì avevo diciassette anni. E avevo giocato contro il Lanzo, il derby, e il Torino mi aveva visto e voleva prendermi. Solo che loro han chiesto dei soldi e allora [la cosa] non è andata a buon fine, e io ho detto: allora ragazzi, non vengo più, perché mi è capitata un'occasione così [e voi me l'avete negata]. Mi sono arrabbiato e sono andato via e mi son messo a giocare a pallacanestro. Solo che cosa è successo? Che a palla canestro non mi pagavano neanche la cena, e io avevo solo bisogno di soldi! Così uno della rappresentativa telefona a mio padre e gli dice: non lo faccia smettere, non lo faccia smettere! E mio padre mi fa: ti compro la Vespa se continui a giocare! Io lavoravo già alla Fiat, ero entrato all'Aeronautica, avevo diciotto anni e allora va beh, ho ripreso a giocare. Ho ripreso e sono andato a giocare a Venaria, dove c'era Bodoira allenatore dei portieri e si è innamorato di me! Poi d'estate giocavo i tornei a Madonna di Campagna, a sette, e di lì è passato Dutto, che ha giocato nella Juventus e come mi ha visto mi ha portato a Fossano. Mi ha portato a Fossano ed era convinto che potevo andare in serie A. Mi ha portato a fare una prova alla Juventus, ma poi mi ero fatto un po' male al ginocchio e non ho fatto niente e poi c'era Panza che ha telefonato a Genova alla Sampdoria. Sono andato lì al giovedì ed eravamo in due, ci hanno fatto la prova e mi hanno tenuto a me. Il sabato mattina arriva Monzelli, mi chiama e mi fa: senta, stasera lo proviamo. Sono qui per questo gli ho detto...Io pensavo ad un amichevole così...C'era il Barcellona che era venuto giù, e mi dice: giochiamo contro il Barcellona. Il Barcellona? Madonna! Io sento gli inni nazionali e mi cago addosso! Quella sera ho visto il più grande giocatore del mondo, Scoun. Quella sera abbiamo vinto quattro a zero e io sono uscito un po' male, e ho bloccato una palla con la mano [aperta], anche perché coi piedi non sapevo giocare, una volta non si usava e allenamento [se ne faceva] poco e niente, lavoravo e la sera andavo a giocare... [Comunque] blocco la palla così [con la mano] e l'ho tirata oltre metà campo! [E la gente diceva]: chi è, chi è, chi è? E mi hanno preso. Mi han messo un allenatore quindici giorni per mettermi in quadro, mi sveglio una mattina ed ero a New York: siamo andati a fare un torneo a New York e io mi davo delle sberle e dicevo, ma sono io? Non è possibile! Mi son trovato, facciamo il torneo e cosa è successo? Che vado là, va tutto bene, torniamo, vado in ritiro tutto quanto e cosa succede - pensa se non sono predestinato - ? Comincia il campionato, Rosin il titolare si fa male - gli viene un foruncolo sul braccio o una cosa così - ed esordisco io. Indovina dove? A Torino al Filadelfia: vinciamo uno a zero con gol di Moro, incredibile. Quell'anno lì ho fatto sette partite e poi mi hanno dato in prestito per farmi un po' di esperienza a San Benedetto: sono arrivato a novembre, avevan cambiato solo me e abbiam fatto tredici risultati utili consecutivi! E allora son poi tornato e ho giocato titolare. Poi a trent'anni Lojacono mi ha tirato una stecca da vicino e mi ha sradicato la spalla. Mi usciva la spalla ed eravamo io e Battara e allora han detto: questo ha trent'anni, ha la spalla che gli esce e il Torino cercava un dodicesimo [un portiere di riserva]. Io invece son guarito con le molle e con i paesi, non avevo più niente e sono arrivato qui e sono entrato in un ambiente che era come se fossi nato lì: ho incontrato Ferrini, che era di Trieste, e tutti mi volevano bene. E sono diventato il più forte dodicesimo d'Europa, perché sostituivo Vieri e Castellini senza farli rimpiangere! Gli dicevo: non fatevi male! Ma quando entravo io paravo tutto! Un'altra cosa: arrivo a Torino, c'è Rocco, andiamo a fare la preparazione: un culo così! Avevo le gambe gonfie così...Rocco mi dice: diu bun che belle ganbe... Ero pieno di acido lattico, non riuscivo neanche a staccarmi. Un'altra cosa: derby, Torino - Juventus. Vieri si blocca il collo, cinque minuti prima della partita. Rocco chiama tutti e dice: fioi, g'avemo sto mon de portier, oggi ciapamo tre pere! C'era Zigoni, De Paoli... Dopo dieci minuti ho salvato la partita, ho fatto tre o quattro parate [ed è finita] zero a zero, e quella lì è stata la mia consacrazione al Torino. E poi sono andato avanti fino a trentanove anni, fino a che non mi son rotto il ginocchio e poi ho smesso. E ho avuto la fortuna di andare nel settore giovanile [del Torino], mi han detto: vai nel settore giovanile e son capitato con Rabitti, il più grande allenatore istruttore, adesso non c'è più, è morto. E mi ha detto: stai qui con me e prenditi i portieri, che io non so tanto. E allora mi sono dedicato all'istruzione dei portieri e adesso mi sento veramente uno dei più forti istruttori, cioè di impostazione dei ragazzini, e nello stesso tempo c'ho ancora tutti gli schemi e le scritture di Rabitti, che io sono fissato con Rabitti. E allora ho avuto questa fortuna. Poi ho allenato la quarta serie, sempre il settore giovanile che abbiam vinto con Vieri che adesso ci sono ancora Marcolini e Pellissier che allenavo io, pensa te. Noi avevamo il settore giovanile che era il più forte d'Europa, poi è arrivato Calleri e ha detto: ma che cazzo spendo dei soldi, io vado a comprarmeli già fatti i giocatori e ha sfasciato tutto. Ha sfasciato tutto il Torino, tutto. Le ho parlato un po' della mia carriera!"

5) Parliamo un attimo di Fiume: riesce a descrivermela, che tipo di città era?

R.: "Fiume era una città un paese. Una città un paese perché non c'erano le macchine, c'era la carrozzina, c'era i tram che girava e si girava a piedi, c'era il corso...C'era sto corso dove tutta Fiume, al sabato, si trovavano lì e combinavano andiamo qui, andiamo là e poi decidevano, e quando decidevano di far festa stavano anche tre giorni senza andare a lavorare tutti e si cominciava a magiare e bere, era veramente...Che poi io abitavo di fronte alla capitaneria di porto, che era un posto eccezionale, e c'era la chiesa dei Cappuccini, mi ricordo, lì vicino, e lì andavo a giocare all'oratorio e di nuovo, mi mettevano sempre in porta. Sono andato da mia nonna e c'era un ragazzino lì, che cercavano il portiere e non avevano il pallone! Adoperavano un copertone del pallone con dentro la paglia, e lo adoperavano solo per le partite, e gli tiravano delle pietre a sto portiere e questo non si buttava. Io gli dico: prova a tirarmela a me! Me la tirano e io brom, l'ho bloccata. Abbiam trovato il portiere [dicono]! Perché si giocava contro i rioni, questo contro quelli là, mi ricordo che lotte! E a me mettevano sempre in porta."

6) Fiume era comunque una città industriale...

R.: "C'era il Silurificio, c'era il porto...No, no, si stava bene! Sono arrivati loro e non si trovava più neanche un limone, niente!"

7) Da un punto di vista della composizione della popolazione, era una città italiana , giusto?

R.: "Eravamo italiani, italiani al 100%. Dal ponte di Sussak andavi di là, e là [erano croati], che poi dopo là han fatto una piazza. Come sono arrivati giù questi qui, che questi han vissuto dentro le foreste, non sapevano cos'era la luce, vedevano il bidè [e dicevano] ma cos'è questo, è acqua? Non sapevano che dovevano pulirsi il culo! E le donne erano più cattive degli uomini: delle donnone [grandi] così che la sera cantavano ciri kolo, ciri kolo. E han portato via tutto, perché loro non erano ancora sicuri di restare lì, e allora noi non trovavamo niente: facevi la fila quattro ore per un pezzo di pane, arrivavi lì [ e ti dicevano] che era finito. C'era gente che si alzava alle cinque o alle sei per trovare da mangiare, ma noi dovevamo stare zitti, stare zitto e comportarti bene perché se no... Poi le foibe, nessuno sapeva niente!"

8) Ecco, parliamo delle foibe. Voi lo sapevate che esistevano?

R.: "No, niente, niente. C'era della gente che andava via, così, perché loro avevano sentito che erano fascisti o questo e quell'altro, e andavano lì e ti portavano via, e la moglie o la mamma o i figli andavano lì [a chiedere] ah, ma mio padre? Ah [gli rispondevano], noi non sappiamo niente. Era un casino! Il terrore, il terrore."

9) Posso chiederle com'era il rapporto tra la componente italiana e quella croata?

R.: "Noi ragazzini... A scuola era obbligatoria un'ora di croato, noi scappavamo via tutti, non li potevamo vedere, no? Perché son venuti dentro, ci hanno portato via tutto... Ad esempio in questo corso [di Fiume] c'era una gelateria, che poteva essere come quella che ha aperto adesso qui [a Chieri], e questo qui faceva il gelato, era arrivato con il carrettino, e aveva delle ricette buonissime. E piano piano, con la gente che passava, che sapeva che aveva il gelato buono, si era fatto una specie di bar. Sono arrivati loro...Arrivavano e dicevano: da oggi se vuoi stare come operaio, come garzone o come cameriere va bene, d'ora in avanti non è più niente tuo. Questo qui è andato a casa,si è buttato giù e si è ammazzato. Perciò anche mio padre era così, non ha potuto toccar niente, lavorava, doveva star zitto e basta. Entravano così, capito?"

10) Ho capito. Quali sono invece i suoi ricordi relativi alla guerra?

R.: "Io della guerra quando ero lì in campagna c'era i bombardamenti, e mi ricordo che mi han portato dentro a un gabbiotto dei conigli, e mi ricordo che vedevamo tutto sto fuoco, tutto sto incendio: avevano bombardato il silurificio. E lì era il terrore: [dopo] non c'era più niente, distrutto tutto! Il bombardamento...Io ero talmente terrorizzato che mia madre mi ha messo la testa in mezzo alle gambe perché lo spostamento [d'aria] mi sembrava che mi portasse via, e allora mia mamma mi ha portato poi a Gonars da mio nonno, nel Friuli. E lì stavo bene, perché [erano] contadini, c'era da mangiare, mi hanno dato in consegna a mia nonna e mia nonna ancora adesso penso che mi protegga. Mia nonna mi vegliava tutta la notte, guai a chi mi toccava, mi preparava l'ovetto sbattuto... E poi mio padre era in guerra, sette anni senza tornare a casa, poi siamo tornati e abbiamo cominciato il casino qui, perché quando eravamo in campo profughi ci consideravano come degli extra comunitari, eravamo lì isolati e guai a chi ci veniva [a cercare]!"

11) Mi ha parlato della guerra. Lei dei tedeschi ricorda qualcosa?

R.: "Mi ricordo dei tedeschi perché c'era mio zio che ha sposato mia zia... Lui era un austriaco e questa è una storia che se fanno un film... Allora lui è arrivato lì [a Fiume], mia zia si innamora di questo qua, mia madre [e la famiglia] sa questo qua militare, in tempo di guerra, non si fidavano... E invece mia zia, proprio amore vero, non ascoltava nessuno: lo amo, lo amo, lo amo! E questo qui lavorava in un ufficio di fronte a noi alla capitaneria del porto, ha falsificato tutti i documenti e si è preso mia zia: l'ha presa e l'ha portata in Austria al suo paese falsificando tutte le carte. E' andato, l'ha lasciata lì, è tornato, e poteva anche morire con mia zia che stava lì e che non sapeva neanche parlare, niente. E io c'ho questo ricordo... Coi tedeschi beh, sapevamo che era la guerra, questo e quell'altro, però il terrore è [stato] quando sono arrivati loro."

12) Lei ricorda l'arrivo a Fiume dei partigiani titini?

R.: "Arrivavano e facevano sparire tutto; arrivavano giù, cattivi da matti, e si sono impossessati della città, di tutto. Noi non eravamo padroni di niente: dovevamo solo stare zitti, cercare di lavorare - che ti facevano lavorare come commesso o così, non eri più padrone di niente, né della casa né di altro - dovevi lavorare per il popolo e loro decidevano cosa fare."
13) Prima mi raccontava che andava a costruire la strada del popolo. Cioè, si trattava di lavoro volontario...

R.: " La strada, la strada del popolo."

14) Ecco, come funzionava?

R.: "C'era il capocasa, veniva lì col camion, ci prendevano e ci portavano sulla strada e noi andavamo con le cariole a portare la ghiaia e così...E noi andavamo tutti lì, figurati...Eri obbligato... E questa era la strada del popolo, ci sarà ancora... Invece son tornato...Poi arrivavano lì e quando entravano dentro al nostro cancello, al nostro androne, pisciavano, una puzza! Son tornato dopo dieci anni, perché ero con Ferrini e andavo sempre a Trieste, perché lui mi diceva: andiamo a veder Trieste! E sono andato [a Fiume] la prima volta e son rimasto impressionato dalla sporcizia; son poi tornato coi figli di [Nereo] Rocco, con Bruno. Son tornato e nella nostra casa avevano fatto un'ambasciata, era bellissima. Adesso invece è tutto bello, ma all'inizio, ragazzi..."

15) Prima mi parlava delle foibe...

R.: "Le foibe non sapevo cos'erano..."

16) Quand'è che ne ha sentito parlare per la prima volta?

R.: "Io ne ho sentito parlare quando son venuto qui. Magari mio padre così, [lo sapeva], ma io avevo solo dieci anni e non sapevo, hai capito? Noi sapevamo che spariva della gente [e dicevamo] ma dove cazzo vanno!? Sai, se ne sentivan tante con gli ebrei, questo e quell'altro, però delle foibe che ne sapevamo? Sapevamo che c'era qualcosa che non funzionava: questi qui andavano e li buttavano dentro via."

17) Lei parte nel 1948, quindi vive sulla sua pelle il passaggio di Fiume dall'Italia alla Jugoslavia. Arriva dunque un mondo nuovo e io credo che cambi tutto, radicalmente. Che ricordi ha in proposito?

R.: "Io avevo undici anni e non capivo niente, però... Io ho smesso subito di andare a scuola di violino e di quelle cagate lì; andavamo a scuola e ti ho detto che quando c'era il croato lo contestavamo, però eravamo ragazzini, no? Però [c'] era la paura ad andare in giro e a fare casino, perché lì non ti permettevano niente e allora dovevi stare attento. Fino a che non ci hanno dato questo permesso per poter venir via, siamo arrivati a Trieste ed è stata una liberazione. Sentivi proprio l'aria: l'aria che respiravi era diversa!"

18) Quindi con la Jugoslavia c'era una penuria di tutto...

R.: "Niente, non trovavi niente. Mio zio è morto per l'ulcera... Si è fatto operare di appendicite ed è morto dissanguato, perché andavi all'ospedale e non c'era niente: questo qui è morto così, dissanguato. Per un'appendicite!"

19) Parliamo dell'esodo. Mi ha detto che partite nel 1948. Della vostra famiglia, partite tutti insieme?

R.: "No, mio papà resta. Resta ed è venuto una settimana dopo."

20) E come mai lo han fatto restare?

R.: "Perché loro c'avevano le spie, anche a Trieste. Perché se noi andavamo a dire ah, quei bastardi, ci hanno portato via tutto! Questi qua venivano a saperlo e mio padre non lo vedevamo più. Allora noi zitti, ci hanno messo sul terno e poi lui è arrivato."

21) Se lo ricorda il viaggio?

R.: "Ah...Da Fiume a Trieste in treno: ci abbiamo messo quattro o otto ore, non so, perché ci han fatto la fogna a tutti, ci han controllato perfino nel buco del culo! Mia madre nella vagina sono andati a cercare che non avesse qualcosa. Perciò eravamo lì, terrorizzati e quando siamo arrivati a Trieste ci sembrava di essere arrivati in paradiso. Mamma mia, un disastro!"

22) Posso chiederle quali sono stati, secondo lei, i motivi che vi hanno spinto a partire?

R.: "Il terrore. Prima di tutto il terrore che non potevi esprimerti, non potevi fare niente, non avevi [libertà], poi non si trovava da mangiare: eravamo terrorizzati da questa gente. Che tra questi qui c'era gente che non sapeva né leggere né scrivere e se gli eri antipatico ti prendeva e ti spaccava tutto, ti portavano via, comandavano loro. Loro erano gli eroi che avevano vinto la guerra, secondo loro, avevano vinto... Il terrore, si, si, [è stato] il terrore."

23) Ora le ribalto la domanda, nel senso che una quota, seppur minima, di popolazione italiana ha invece deciso di restare. Secondo lei come mai?

R.: "Sono rimasti perché speravano in qualcosa di diverso. Allora, c'è mio fratello che ha sposato una di Valle, di Valle d'Istria. Avevano la casa, avevano i terreni e anche lì, sono arrivati e [hanno] portato via tutto. E son venuti via e han lasciato lì così. Adesso son tornati e han tirato a sorte duecento famiglie e son riusciti a beccar la casa, però i terreni sono ancora lì, della Jugoslavia. Allora certi restavano sperando, perché gli girava le palle uno che aveva la sua casa e la sua terra dover lasciar tutto ed andar via, no? Noi eravamo in affitto, mio padre aveva sto negozio ha capito e siam venuti via. Invece c'era qualcuno, e questo perché c'era la pubblicità e tutto, che veniva a Fiume e si portava le scorte da mangiare e finché c'era da mangiare dicevano no, no, va tutto bene. I comunisti, erano i comunisti! Perché io giocavo con [Azeglio] Vicini e siamo andati in Russia a fare un torneo e lui diceva che si stava bene in Russia. C'erano le code per prendere un litro d'acqua e non potevi andare dove volevi coi comunisti, ma lui era comunista e gli andava tutto bene. E c'è della gente che ci crede e che ha i paraocchi, che ne so! E allora qualcuno è rimasto lì per quello: no, no, cambierà, il comunismo...Cioè, quelli che credono nel comunismo, che questo è mio e questo è tuo. Si, si, intanto ti portano via tutto!"

24) Riesce a descrivermi com'era Fiume nei giorni dell'esodo? Era cioè una città che si stava svuotando?

R.: "Si vedevano solo loro in giro. La gente a Fiume ti ho detto che facevano baracca, che c'era la passeggiata e i bar, ma niente, non c'era più niente. Ognuno stava a casa sua e cercava di andare a prendere un po' di pane, un po' di questo e un po' di quello, e stava lì ore ed ore a far la fila per riuscire a prendere qualcosa."

25) Ma c'era la percezione di essere, come a Pola, di fronte a una città che si svuotava?

R.: "Si, si eh si eh!Ogni giorno un treno si riempiva e andava. Perché ti davano il permesso, e allora quando arrivava il permesso ti caricavano e ti portavano via. Noi non volevamo star lì, non ci piaceva e bom."
26) Da Fiume arriva a Trieste. Dove va a stare, al Silos?

R.: "Ah, ci mettono vicino alla stazione, ma non mi ricordo nemmeno... E poi di lì c'era un posto di smistamento e uno lo mandavano a Milano, uno a Torino, uno a Marina di Massa e a noi ci è capitata Marina di Massa."

27) Lei va quindi a Marina di Massa...

R.: "Marina di Massa era una colonia, Colonia senese, si chiamava. Era una colonia dove portavano i bambini d'estate, ed eravamo 5.000 persone."

28) Eravate tutti giuliano-dalmati?

R.: "C'era anche dei greci. E allora, per noi bambini, arrivati lì in sta colonia, attraversavamo la strada e avevamo la spiaggia con il mare. A noi sembrava tutto bene: ci davano 108 Lire al giorno... No, prima ci facevano da mangiare, andavamo lì in fila e ci davano la pastasciutta, poi ci davano 108 Lire al giorno e noi ci facevamo da mangiare, andavamo a comperare. Mio padre poi essendo parrucchiere cercava di tagliare i capelli per guadagnar qual cosina, poi ha preso un negozietto lì dentro nel campo e si è messo a vendere pane, questo e quell'altro, commestibili. E allora stavamo lì, così, ma arrivati a un certo punto gli hanno fatto smettere anche quello, perché cominciava a guadagnare troppo! Poi è successo che siamo stati lì cinque anni, e come si poteva si viveva. Eravamo tutti lì, c'era i gabinetti tutti insieme, c'era una spina che ci andavamo a lavare tutti insieme, come fossimo bambini in colonia. E lì, sai nella miseria e nella tristezza, ti unisci, ti attacchi, diventi fratello di tutti, ci si aiutava e questo e quell'altro. Giocavamo al pallone, i nostri genitori si davano da fare: mia mamma...Io mangiavo cinque piatti di minestrone, mi stavo sviluppando, ero magro come un chiodo e mia mamma andava a fare i servizi, aveva conosciuto un medico e andava a fare i servizi in una pensione dove andava a lavare le lenzuola e le stendeva e prendeva qualcosa per darmi da mangiare: mi faceva dei minestroni per riempirmi e continuavo a mangiare come un lupo! Mi aveva anche portato a vedere se avevo il verme solitario! Mangiavo, mangiavo e mi allungavo solo!"

29) Voi ricevevate qualche tipo di assistenza a parte il sussidio? Non so, dei pacchi dono o cose simili...

R.: "No, niente. Noi prendevamo queste 108 Lire al giorno e con quelle lì [si viveva]. Poi, ti ho detto, andavo a vender pantofole e mi davano la paghetta... Ed era cominciato il calciobalilla, e mi piaceva da matti! E allora io ero indeciso se giocare al calciobalilla o andare al cinema, e mi lasciavo tentare dal calciobalilla: avevo appena cominciato e perdevo, e poi stavo quattro ore a guardare gli altri giocare! E anche lì [ero] portiere, sempre portiere! Poi sono diventato fortissimo, al gancio."

30) Parlando sempre si Massa, il campo dov'era fuori dalla città?

R.: "Si, c'era la città e poi ci saranno stati tre o quattro chilometri, tutto lungo la strada che andava a Carrara, e [c']erano tutte colonie, c'era anche la colonia della Fiat, che noi andavamo a vendere le figurine, cioè gli portavamo le conchiglie e ci davano le figurine i bambini della Fiat."

31) Nel campo le stanze erano divise?

R.: "A Torino erano divise con le coperte, invece a Massa c'era un muro che non arrivava fino sopra [al soffitto]... C'era uno stanzone e in uno stanzone largo e lungo e noi avevamo dentro il letto e il tavolo per mangiare, mentre i gabinetti erano tutti assieme, ti lavavi tutti assieme e tiravi avanti."

32) Posso chiederle come vi ha accolto la popolazione massese?

R.: "Con diffidenza. Han detto: questi qui chi sono, vengono a portarci via il lavoro...Perché magari, anche quando eravamo qui alla Fiat, tanti li prendevano alla Fiat perché eri profugo ed eri un po' avvantaggiato. E infatti quando si liberava qui qualche posto, allora prendevano. Marina di Massa non c'era industrie, [c'era] solo turismo, si liberava una città mettiamo come Torino e allora chiedevano: dove volete andare? E io gli ho detto a mio papà: papà andiamo a vedere che non ho mai visto...Non avevo mai visto una partita di calcio! E allora abbiamo optato per Torino e siamo arrivati qui alle Casermette. Siamo stati cinque anni lì a Massa, dal '48 al '53, e poi dopo siamo arrivati a Torino. Poi ci han fatto le case a Lucento e noi ce ne han data [una]. Quando ci han dato le case, noi ci han dato camera e cucina. Allora, c'era la camera e io dormivo... Cioè c'era la camera, cucina e ingresso, quattro vani e dicevo, ma dove cavolo siamo? E allora mio fratello dormiva con mio papà e mia mamma, e io nel lettino, e anche i miei genitori c'avevano sempre qualcuno in mezzo, non potevano neanche chiavare dio santo! Era sempre con loro, perché mio fratello dormiva ai piedi del letto e io avevo sta brandina lì così... Alle Casermette invece eravamo divisi con le coperte, e quella che era vicino a noi cucinava tutta la notte, perché attaccava quei fornelletti elettrici perché non saltasse la luce, perché se ti attaccavi quando eravamo tutti accesi [la luce] saltava, allora cucinava di notte. Una puzza! Poi ci rubava l'olio, rubava l'olio a mia madre che controllava... Insomma, una vita!"

33) Prima mi diceva che una volta arrivato a Torino è andato a lavorare alla Fiat. Posso chiederle come funzionava la ricerca del lavoro. Perché io so che lì c'era don M. che era il referente delle fabbriche e che faceva assumere molti profughi...

R.: "Combinazione è successo che all'aeronautica han mandato via tutti i comunisti, e cosa han fatto? Andavano alla scuola [allievi Fiat] in corso Dante, prendevano sti ragazzi, io avevo diciotto anni, li prendevano e ci facevano un corso. Prendevano tutti sti ragazzini mandando via tutti questi qua - io son stato sei mesi lì a fare un po' di pratica - ci han messi tutti noi, meno male. Han mandato via questi che erano comunisti e ci hanno preso e ci hanno messo a noi al loro posto. Così lì io stavo bene, perché cominciavo ad avere lo stipendio, ho trovato mia moglie cioè la mia fidanzata quando giocavo a Venaria. E allora ho detto - mia moglie lavorava alla Magnadyne, io lavoravo alla Fiat - ci prendiamo la casa a riscatto, tiriamo su famiglia. Questo era programmato, no? E invece poi mi è capitato di trovarmi in serie A ed è cambiato un po' tutto."

34) Torniamo un attimo a parlare delle Casermette. Riesce a descrivermi come andavano via le giornate?

R.: "Lì c'era un oratorio dove noi giocavamo, e c'era il calciobalilla al contrario, questi son particolari che mi ricordo, si tirava dall'altra parte. E c'era un zampettino di calcio e noi giocavamo lì a calcio, cioè noi vivevamo proprio dentro al campo. Quando andavamo in giro andavamo in bicicletta e io mi ricordo che andavo a lavorare fino in via Cigna in bicicletta. Il massimo che avevo era la bicicletta, e si viveva tutti assieme, si continuava a vivere tutti assieme: noi eravamo come isolati, eravamo un gruppo a se. Poi c'era gente che aveva cominciato a lavorare: mio padre [ad esempio] è andato alla Iprat a lavorare e cominciavamo a guadagnare qualche cosina e iniziavamo a star bene, avevamo comprato la radio, il giradischi, cominciavamo a metterci un po' in quadro. Poi ci han dato la casa a Lucento, e cominciava a cambiare un po' la vita: come si dice, dalla merda al risotto! Per noi, quando ci han dato la casa che abbiamo aperto la porta, siamo entrati, abbiamo chiuso e ci siam trovati tutti e quattro dentro, sembrava un castello, sembravamo di essere in paradiso! Il paradiso che eravamo nelle quattro mura, eravamo chiusi e potevamo scorreggiare tra di noi senza che si sentisse niente!"

35) Riesce a descrivermi com'era Lucento all'epoca?

R.: "Lucento avevan fatto ste case e poi c'era tutto prato e basta. Che poi quando sono andato a giocare, [con] i primi soldi [guadagnati] ho tirato fuori mio padre dalla fabbrica perché io vedevo che lui moriva lì dentro, era abituato ad avere le mani sempre pulite coi parrucchieri, io vedevo che lì stava male. Allora la prima cosa che ho fatto, ho preso una latteria lì a Lucento e l'ho messo dentro, così almeno conosceva gente, si dava da fare e poi c'era anche mia moglie che lo aiutava. Noi poi siamo arrivati lì e abbiamo preso un alloggio così, perché all'inizio dormivamo io e mia moglie, poi dopo è nato anche il bambino e dormivamo tutti insieme. Poi dopo abbiamo preso una casa in affitto e nello stesso tempo io andavo tutti i lunedì a Pino Torinese, dove c'era Ferrini che con Rosato avevano fatto le due ville. E allora andavo là tutti i lunedì - io avevo comperato quando ero alla Sampdoria un alloggio lì a Genova - andavo e mi dicevo: vendiamo lì [a Genova] e ci facciamo una casetta qua no? Allora Ferrrini mi fa: andiamo giù, andiamo a cercare un posto! E capitiamo in uno spiazzo in viale Balbiana dove c'era un campo da bocce, incontriamo una persona e gli chiediamo: senta, ci sarebbe mica qui un pezzo di terra per fare una casa? Ci siam presentati S., Ferrini, così, in simpatia, e [lui risponde]: ma, ci sarebbe questo pezzo di terra qui, così. E io ho detto: va ben, lo prendiamo, quant'è? Ci siamo dati la mano e gli ho detto: io c'ho trentacinque milioni, mi faccia la casa! Non ho visto né progetti né niente, e questo qui mi ha fatto una villa ragazzi! Madonna che roba! E siamo diventati amicissimi con questo P., che era un costruttore che aveva fatto tutte quelle case."

36) Le chiedo solo più due cose. La prima è questa: mi ha detto che a Massa vi hanno accolto con diffidenza...

R.: "All'inizio, perché non conoscendo, gente che viene là, dicevano ma com'è, com'è?"

37) Ho capito. E invece a Torino come siete stati accolti dai torinesi?

R.: "Qui a Torino era già una cosa un po' più diversa."

38) In che senso?

R.: "Diversa perché qui essendo già una grossa città, c'era già gente che cominciava a lavorare alla Fiat. Che cominciava a stare un po' meglio di soldi, ad avere dei vestiti che noi andavamo in giro ed eravamo dei bei ragazzi, cioè, cominciavamo a conoscere. Giocavamo al calcio, quasi tutti giocavano al pallone, ce n'era di giocatori! C'era dei bei giocatori solo che non avevano disciplina, se ne sbattevano i coglioni, non avevano voglia... Erano giocatori, ma fortissimi! Solo che erano sbandati, non avevano voglia di andare a dormire presto... Io dicevo: ragazzi, domani devo andare a giocare... Erano le dieci e li mollavo tutti. Loro mi dicevano: ma no, ma cosa fai! No, no, domani devo andare fino a Ciriè. Io avevo la forza, invece gli altri si lasciavano portare, andavo lì al bar e cominciavano a bere. Io ho visto della gente che prendeva lo stipendio e poi se lo giocava a carte. Era tutta gente tirata su così, e non tutti avevano la testa sul collo."

39) Torino vi ha aiutato dunque anche a integrarvi, credo. Posso chiederle come passava il suo tempo libero?

R.: "Andavamo a ballare, andavamo in birreria, cominciavano a conoscerci. Poi venivano lì, facevamo le partite, facevamo un campionato e poi piano piano cominciavi ad andare in fabbrica, cominciavi ad aver la macchina e allora è cambiato tutto, non eravamo più i pezzenti che eravamo messi là da parte e che non uscivano da lì. Capito?"

40) Si. Io ho notato in altre interviste che ho fatto, che un altro motivo che ha inciso negativamente sulla vostra accoglienza è stato quello di essere considerati, ovviamente a torto, fascisti...

R.: "Si, si, pensavano che noi siamo scappati via perché eravamo fascisti. Invece a noi di politica che cazzo ce ne fregava? Noi a Fiume stavamo bene, eravamo dei signori, madonna!"

41) Le faccio l'ultima domanda. Lei ha nostalgia di Fiume?

R.: "Io ti giuro, ti giuro... Adesso vado ad abitare a Trieste perché ho una figlia lì, combinazione. Però io come arrivo vicino a Fiume mi prende un magone, ragazzi! Non so cosa sia, sarà il richiamo o cosa, però mi prende... La prima volta che sono andato giù [è stata] una cosa incredibile."

42) Quindi possiamo dire di si...

R.: "Si. Io quando vado lì a Fiume mi manca sempre qualcosa. Mi è mancato sempre qualcosa."
20/10/2009;


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Miletto Enrico 27/10/2009
Pischedda Carlo 02/11/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Franco S.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD13557]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019