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CARTACEO: Intervista a Giuseppe M.

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Intervista a Giuseppe M.
Giuseppe M. nasce a Montona nel 1946. Nel 1949 parte con la famiglia e, dopo un breve sosta al Silos di Trieste è inviato al centro raccolta profughi di Tirrenia, dove resta fino al 1951, anno nel quale si trasferisce a Torino. A Torino è ospitato alle Casermette di Borgo San Paolo fino al 1956, quando con la sua famiglia riceve una casa al Villaggio di Santa caterina. Vive a Torino, dove è stato intervistato il 12 aprile 2010. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Sono nato a Montona in provincia di Pola il 13 - 3 [marzo] 1946."

2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.: "La mia famiglia di origine è composta da mio padre, che attualmente è morto, mia madre, vivente, e siamo tre fratelli. Nel momento dell'esodo eravamo solo due perché il terzo fratello è nato qui a Torino. Io sono nato nel '46, quindi nel '49 in seguito all'opzione in Istria se rimanere o andare, i miei genitori hanno scelto di andare [via] lasciando praticamente tutto quello che avevano. La casa, tutti i beni e gli animali: erano contadini, come la maggior parte [dei montonesi]. Montona è nel cuore dell'Istria, nel centro, e quindi siamo in un'economia agricola, prettamente agricola. I miei quindi erano contadini."

3) Dal punto di vista della distribuzione della popolazione a Montona come funzionava? Cioè, la maggioranza era italiana, mentre la componente slava era fuori dalla città?

R.: "Allora, era una società multietnica ante litteram, diciamo, perché c'erano comunità slave, croate, e comunità italiane. Difatti i miei genitori, quando non volevano che noi capissimo l'argomento o i problemi di cui stavamo parlando, parlavano in croato. Non insegnandolo a noi, peraltro! Mah, insomma, io avevo tre anni quando son venuto via, e loro han continuato a parlare in croato anche qui a Torino, però rifiutandosi categoricamente di insegnarcelo, perché la lingua croata era legata alla loro - come si sono costruiti la storia - alla cacciata dall'Istria. Quindi la comunità era mista, si parlavano due lingue, convivevano tranquillamente tutti quanti, fermo restando il fatto che il regime fascista, allora, discriminava pesantemente la comunità slovena e croata. Per esempio il mio cognome non è M., il mio cognome vero è M.-ch, perché ad un certo punto erano stati italianizzati i cognomi mantenendo la radice delle prime tre lettere. Quindi M.-ch è stato poi italianizzato in M.."

4) Riprendendo il discorso della convivenza tra le due parti, io so dell'esistenza nel dialetto istriano di un termine, s'ciavo, utilizzato dalla componente italiana per definire quella croata. Lei ha ricordi in proposito?

R.: "Questo tema lo svilupperà meglio con mia madre che li ci ha vissuto da quando è nata fino al 1946, quindi dal 1922 al 1948. Dei rapporti tra le varie etnie, insomma. Per quello che so io, nella mia famiglia non venivano usati particolari epiteti, aggettivi o definizioni per definire le altre comunità di altra lingua. Salvo la definizione di drusi, ma drusi è semplicemente la traduzione croata di compagno, per cui venivano definiti i drusi quelli che erano arrivati lì e quindi quelli che, tra virgolette, avevano cominciati una bella pulizia etnica perché, sostanzialmente, di questo si è trattato. Insomma, dopo la guerra, quando quella parte è passata alla Jugoslavia. Quindi direi di no... s'ciavo, no... Ma poi s'ciavo è si un po' dispregiativo, però non l'ho mai sentito a casa mia, solo i drusi."

5) Lei prima, facendo riferimento al cambio dei cognomi, mi parlava del fascismo. Un periodo che lei, ovviamente visti i suoi dati anagrafici, non può ricordare direttamente. Le hanno però raccontato qualche episodio relativamente a quegli anni?

R.: "Quando mia madre e mio padre parlavano, che poi ho avuto occasione di parlare anche con altri parenti che son rimasti lì e che quindi non hanno fatto la scelta di venire in Italia e che attualmente stanno meglio di noi, tolto un periodo iniziale di adattamento al nuovo regime, comunque, a parte questo... Mia madre - e anche mio padre - fa discorsi assolutamente quasi idilliaci, nel senso che la società funzionava bene, tutto era regolato dalle leggi e non c'erano tensioni sociali, a Montona, e quindi stiamo parlando di piccoli paesi, di comunità abbastanza ridotte e non di grandi città. Per cui non so... Ad esempio mio nonno aveva un negozio di tabacchi, ed era un benestante in quell'epoca, altri avevano molti animali... Insomma, una società contadina non di alto livello, ma dove non mancava niente. Per cui anche quando parlano del periodo fascista, ovviamente gli echi di tutto quello che succedeva nel mondo legato alle scelte della politica nazionale, loro ne erano pressoché ignari, perché vivevano senza informazioni: giornali non c'è n'erano, le radio chi le ascoltava e la voce ufficiale era quella del podestà o di altre autorità, che emanavano editti, emanavano ordinanze, però dal loro punto di vista tutto funzionava, non c'era nessuna tensione nel periodo, diciamo, ante guerra, perché poi quando è cominciata la guerra... "

6) Ecco, della guerra cosa le han raccontato?

R.: "No, no, assolutamente. I miei genitori ignoravano bellamente tutto quel che succedeva nel mondo, e poi scendendo anche nel piccolo, le ripercussione che potevano esserci a Montona dove vivevamo non è che le sapevano... [Dicevano] ah, abbiamo sentito un'eco, rumori di guerra, voci di guerra... Era un vivere quello capitava giorno per giorno ignorandone completamente le motivazioni e le conseguenze e i fatti, soprattutto, che succedevano. Mia madre non è andata oltre la quinta elementare, mio padre anche, [quindi] non avevano strumenti, non c'erano."

7) Quindi anche del rapporto con le forze in gioco e cioè i tedeschi, i partigiani...

R.: "Ah, questo è un altro argomento. Allora, quando le cose son precipitate, nel senso che l'Istria non era più sotto il comando e il dominio dell'autorità italiana, son cominciate le scorribande, di notte dei partigiani e di giorno dei tedeschi. Mio padre mi ha anche raccontato dei fatti precisi, nel senso che si nascondevano. Ad esempio una volta c'è stato un controllo, un rastrellamento, una retata o una perquisizione nel paese, e lui si è aggrappato sotto la rete del letto, perché [i tedeschi] cercavano soprattutto gli uomini, ed è rimasto aggrappato così fino a che la perquisizione non è finita, ma non è stata la prima volta. Quindi, una volta arrivavano i tedeschi a chiedere chi eri, cosa facevi, perché non eri arruolato e via discorrendo, e altre volte venivano i partigiani che però non facevano vessazioni particolari. Perché tra l'altro tra i partigiani c'erano anche... Cioè, erano squadre miste, slavi e italiani. E quindi diciamo che [i miei] hanno vissuto la guerra in questo avvicendarsi di armati che arrivavano, tra chi voleva comandare di notte e chi voleva comandare di giorno, e la tensione era altissima. E ci sono vari episodi tragici di famiglia: un cugino di mia madre, che faceva, poverino, la guardia all'acquedotto ed era vestito con l'uniforme dell'esercito italiano, è stato preso dai partigiani ed è stato buttato nella foiba. Quindi c'è questo episodio familiare proprio di un parente buttato dentro la foiba."

8) In una foiba a Montona?

R.: "Eh, nella foiba di Pisino, credo, che non è lontano da Montona, sempre lì in Istria. Quindi siccome la comunità era una comunità religiosa e cristiana - erano cattolici tutti quanti - questo arrivo dei partigiani era vissuto anche come un impedimento e una grave violazione di quelli che erano i principi di vita e di società che vigevano. Questo perché la visione era strettamente locale, quindi succedevano delle cose e dicevano: ma perché arrivano i partigiani, ma perché arrivano i tedeschi, cosa vogliono da noi? Quindi senza collegare i fatti, non è che l'opinione arrivava guardando i fatti: era un'opinione loro storica, e poi guardavano quello che succedeva molto , molto lineari e anche inconsapevoli."

9) Parlando ancora solo un attimo della guerra, vorrei chiederle in che modo Montona è stata coinvolta...

R.: "No, bombardamenti lì a Montona non ho mai sentito parlare di bombardamento, ma neanche di sparatorie, voglio dire, di combattimenti a fuoco pesanti. Le città più importanti, quelle con i porti militari erano prese di mira."

10) Lei prima mi parlava dei titini. Posso chiederle se le hanno mai raccontato il loro arrivo a Montona e qual è stata l'accoglienza ricevuta da parte della popolazione?

R.: "I titini comunque erano visti come invasori, chiaramente. Per cui c'era un ordine costituito, diciamo così, e quest'ordine costituito veniva attaccato da un nemico. Un nemico che non si era palesato, nel senso che non era venuto a spiegare più di tanto perché e per come, quindi c'era questa paura legata a questi movimenti militari. Militari regolari e militari irregolari che erano i titini, però più di tanto non so dire di questo."

11) Parliamo nel dettaglio di un elemento emerso precedentemente, e cioè le foibe...

R.: "Si, si."

12) Ecco, vorrei sapere se lei ne era al corrente, se ne avevate la percezione oppure se invece non avevate mai sentito parlare...

R.: "No, no, si sapeva, si sapeva. Il racconto di infoibati era un racconto molto frequente, anche perché moltissime famiglie avevano persone coinvolte in questa disgrazia, per cui si sapeva. Però la foiba era legata all'arrivo dei titini, quindi sono i titini che prendono le persone e le buttano nelle foibe, quindi non sono né i tedeschi né l'esercito italiano. Quindi la foiba è legata esclusivamente a una persecuzione o a un odio o a un'azione - diciamo così - mirata a colpire non so bene se gli italiani o i fascisti, a dir la verità. Anche perché la popolazione era fascista per destino di nascita, non per scelta, perché mica l'aveva scelto, se lo son trovati il regime. Vivevano con quello perché probabilmente pensavano che non ci fosse alternativa a quello, ecco. Non c'era niente, nessuna opposizione di nessun genere allo status quo e per cui la foiba, cioè nei racconti di foiba c'era la foiba qua, la foiba là, insomma racconti così. E quello che più ci ha colpito è la storia di questo nipote di mia madre."

13) Che è stato infoibato...

R.: "Si. Però non è che venivano infoibati qualsiasi, cioè non è che prendevano uno e dicevano adesso lo buttiamo dentro. [Venivano uccisi] quelli che loro ritenevano legati o più legati al nemico, ecco. Le ripeto, questo ragazzo che faceva la guardia da solo con un fucile mezzo scarico all'acquedotto preso ed infoibato."

14) Posso chiederle la foiba come le veniva raccontata?

R.: "Allora, una cosa è il colore che viene messo attorno a questi racconti, perché anche mia mamma e mio papà non è che avessero queste grandi informazioni, non c'erano i giornalisti che andavano a indagare e dicevano che uno era stato preso alle cinque e poi era sparito, no... Era un racconto, come dire, di ineluttabile disgrazia: dicevano l'han preso e l'han buttato in foiba. Ma senza motivazioni, non è che io so di preciso, ad esempio di questo mio parente, cose gli hanno chiesto, nessuno sa niente se gli han chiesto non so di cambiare la divisa e passare dall'altra parte o perché era lì. La foiba veniva raccontata come un atto di odio e di eliminazione del nemico, senza altre motivazioni."

15) Posso chiederle, prima di affrontare il discorso relativo all'esodo, come i suoi genitori hanno vissuto il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia, un evento traumatico, che li mette di fronte a un mondo nuovo...

R.: "Allora, io avevo due o tre anni... Io so che finita la guerra... Insomma all'8 settembre mio padre era militare qua a Genova, in una caserma. [Dopo l'armistizio] il generale li chiama tutti - questo era il racconto di mio padre - e gli dice: ragazzi, mettetevi in abiti civili e si salvi chi può! Si salvi chi può! Sono scappati tutti fuori dalle caserme, mio padre ha preso il treno per andare a Trieste e tornare a casa, in abiti civili con qualche sotterfugio e trucco ha fatto finta di essere fidanzato con una donna che era là, ma questo perché c'erano i tedeschi, ed è tornato a casa. Ma del trapasso da una situazione di vita normale al nuovo ordine e quindi a una nuova autorità, io non le so dire più di tanto, perché il racconto [dei miei] verteva soprattutto sul fatto che c'era stata questa scelta da fare: l'Istria pullulava di titini che cercavano in tutti i modi di mandare via più italiani possibile e di sistemare popolazioni che Tito aveva mandato per ripopolare l'Istria al posto degli italiani. Però erano popolazioni che con l'Istria non avevano niente a che fare, per esempio arrivavano dalla Bosnia, insomma dal sud della Jugoslavia e non erano contadini, avevano delle altre abitudini, era tutta un'altra cosa, però a trovare le case fatte li sistemavano e li piazzavano lì: era un'occupazione con sostituzione! E questo è chiaro che è stato vissuto come un gravissimo affronto alla dignità personale: perché devo lasciare tutto, per quale motivo, cosa abbiamo fatto? E ricordo che non tutti quelli che avevano fatto domanda per venire in Italia erano stati accontentati, perché c'era stata anche una selezione, c'era anche una discriminazione, anche all'interno di una stessa famiglia, che veniva tagliata: tu si e tu no, all'interno dello stesso nucleo familiare. I miei genitori hanno fatto la scelta [di andare via], la sorella di mia mamma con suo marito sono invece rimasti là. Son rimasti là e stanno benissimo in Slovenia, adesso!"

16) Parliamo ora dell'esodo...

R.: "[Siamo partiti] con un carretto e quattro stracci, nel '49. Il viaggio era via terra con un carretto e poi su un camion che doveva avere masserizie di diverse famiglie e tutto quello che ci stava. Il viaggio verso Trieste, ma proprio portando dietro il minimo indispensabile perché non è che si faceva un trasloco e si andava in un'altra casa, si andava sa iddio dove! Arrivati a Trieste alcuni potevano optare per andare negli Stati Uniti, altri in Sudamerica e altri in Australia, ma con un criterio che non so spiegare... Noi, il mio nucleo, eravamo due adulti e due bambini piccoli. Quindi noi da Montona siamo partiti per Trieste e a Trieste c'era il campo di smistamento profughi, il Silos, in una situazione di baraonda totale, come si può immaginare. Da lì l'opzione era Brindisi e allora mia madre che è molto combattiva e battagliera ha detto: no, io a Brindisi non ci voglio andare nel sud Italia, perché ho due bambini piccoli, il viaggio è lungo... Insomma, ha fatto finché le han detto va bene, la mandiamo a Livorno, a Tirrenia. A Tirrenia c'era un campo profughi, e quindi siamo stati un anno a Tirrenia e poi a Tirrenia c'era un'altra scelta da fare. [I miei hanno scelto] Torino, e quindi le Casermette di via Veglia, dove c'era il più grosso campo di concentramento profughi. E mio padre nel frattempo faceva lavoretti vari, perché doveva riciclarsi da contadino a non so cosa - non sapeva neanche lui cosa - : attaccava manifesti elettorali e faceva lavori vari."

17) Parlando dell'esodo, cui lei ha ovviamente preso parte seguendo la scia dei sui genitori, vorrei chiederle, secondo lei, come mai i suoi genitori hanno preso la decisione di partire.

R.: "Anche io gliel'ho chiesto! Anche io ho chiesto ma perché? [Mi hanno risposto che sono partiti] perché sono arrivati i comunisti, i titini, i quali erano contro la religione, contro l'ordine precedente costituito e quindi con anche negli occhi la violenza che aveva preceduto tutto questo. C'era poi una comunità oramai disgregata, e quindi si sarebbero trovati in minoranza in un posto in cui sono nati e dove la maggioranza erano della comunità italiana, la maggioranza, non il 100%. E quindi la scelta era una scelta dettata visceralmente, io penso, da motivi politici e religiosi. Politici e religiosi perché il fascismo aveva seminato certe cose, la chiesa altrettanto e quindi sono state queste due motivazioni che hanno superato di gran lunga l'interesse economico, vale a dire il patrimonio, la casa, l'attività, le mucche e il loro essere contadini. E difatti io ho chiesto diverse volte a mia madre: ma perché [siete partiti] , potevate restare lì', aspettavate un po' e comunque avevate una casa e i vostri animali. No! Perché lì era cambiato tutto, bisognava consegnare il raccolto alla cooperativa, cominciavano a cambiare le regole della proprietà privata; insomma, un cambiamento così radicale loro non potevano affrontarlo, non se la sentivano, non erano in grado e non eran capaci. E difatti, scherzando, ho detto a mia madre diverse volte che se noi fossimo rimasti lì adesso saremmo come sua sorella, che è rimasta lì, che c'ha la sua bella casa, c'ha le sue vigne, coltiva l'olio... Si [rispondeva mia madre] però solo dopo tanti anni è arrivato un benessere, però tutto subito, in quel momento, no. In quel momento, secondo me, c'è stato anche un effetto panico totale [che ha contribuito a prendere la decisione di partire]: tu parti, tu vai via? Si, vado via anche io. E allora cosa facciamo qua? Qua van via tutti... Anche perché l'arrivo di questi nuovi abitanti, di questi nuovi occupanti dell'Istria, creava un grosso disagio di socializzazione, anche perché li vedevano ostili. Cioè non era una popolazione che arrivava lì e si inseriva in un tessuto che prevedeva questo, assolutamente. Era un arrivo con violenza, un arrivo imposto, traumatico".

18) E se le ribaltassi la domanda, chiedendole cioè secondo lei chi è rimasto come mai ha fatto questa scelta?

R.: "Alcuni - mi risulta - che non hanno avuto il visto per andarsene, una parte. Un'altra parte... Diciamo che io ho fatto questa domanda che mi sta facendo a mia zia e mio zio che sono in Slovenia adesso, a Isola. E le risposte sono molto ma molto reticenti, nel senso che - e qui lo dico e qui lo nego, perché è una mia idea - mi son fatto l'idea che alcuni non è che vedessero così di cattivo occhio il regime di Tito, tutto sommato. E quindi molti hanno pensato di poter convivere nella nuova situazione, con i nuovi inquilini dell'Istria. Un po' perché avevano delle proprietà e pensavano di poterle in qualche maniera difenderle, però una risposta precisa che uno mi dica son rimasto lì perché mi piaceva da matti stare nella mia terra, o perché il fatto che c'è stato questo ricambio totale della popolazione istriana non mi ha turbato più di tanto... Non lo so."

19) Mi ha detto di essere stato a Tirrenia in campo profughi. Riesce a descrivermelo?

R.: "Non lo so, anche perché siamo rimasti abbastanza poco, so molto meglio qua [alle Casermette]."

20) Ecco, mi parli delle Casermette...

R.: "Io arrivo nel '50 o '51, e siamo rimasti lì fino al '56. Le Casermette erano organizzate come un ghetto - diciamolo - e quindi con un muro di cinta che circondava questi baraccamenti. Le famiglie venivano sistemate in queste caserme, suddivise da tramezze o tende, dove la privacy era ridotta proprio al minimo, con servizi igienici in comune e con, comunque, una vita sociale abbastanza accettata: non c'erano tensioni. All'interno di questo campo, non mi risulta e non ho racconti di violenze e di tensioni dovute al fatto di convivere in quella maniera. L'istriano ha una caratteristica [che è quella] di essere molto, molto docile; non ha la ribellione nel suo dna, accetta, si adatta, è molto rispettoso della legge, è molto pulito, è molto ordinato, ci tiene molto alla bella figura... Se lei ha letto il libro di Anna Maria Mori [Nata in Istria], ecco quel libro lì fotografa la 100% le caratteristiche di mio padre e mia madre, sono lì dentro. Di costume parlo, eh, del modo di vivere e dello stile di vita. Quindi queste Casermette - e lo ricordo perché ero ragazzo - avevano la chiesa, la farmacia, la scuola, la stazione dei carabinieri, il campo di calcio, quindi erano assolutamente autonome in tutto e per tutto. All'inizio venivano serviti pasti in un refettorio comune - pasti che arrivavano non so da chi, insomma, dalle autorità italiane - fino a che, piano, piano, la gente ha incominciato a organizzarsi anche per conto proprio. Però c'era anche il cinema, però la parrocchia organizzava il cinema a tutti i ragazzi che prima andavano in chiesa; perciò prima tutti in chiesa - c'era un sacco di gente, un sacco di bambini - e poi tutti quelli che erano andati in chiesa potevano andare al cinema. Quindi scuola, assistenza sanitaria, attività religiosa e ricreativa, tutto all'interno di questo campo."

21) Quasi fosse un paese nella città...

R.: "Una cittadella, una cittadella, misera, perché vivere così, insomma... "

22) Una cittadella, come l'ha appena definita, dove voi vivevate anche con altri profughi...

R.: "Allora, nel campo profughi - adesso non so dirle di preciso la percentuale - c'erano queste varie origini, che io le ho poi viste quando è stato costruito poi il villaggio di Santa Caterina, e allora a quel punto si son ben identificati i greci, eccetera, eccetera."

23) E i rapporti erano buoni...

R.: "Ma, io dico di si, perché non ci sono mai state tensioni, di nessun genere. Perché tutti erano in attesa - secondo le promesse che qualcuno aveva fatto - di una sistemazione. Però vivendo in questo perimetro chiuso, in questa cittadella, in questo ghetto - come lo chiamo io -, l'impatto con la società torinese era tutt'altro che idilliaco... "

24) Ecco, parliamo dell'accoglienza ricevuta a Torino...

R.: "Io ho letto e han scritto di tutto e di più: di treni che non si fermavano a Bologna perché eran pieni di profughi, eccetera, eccetera. Diciamo che arrivare così, e integrarsi in una società quando nessuno voleva che tu ti integrassi, perché non c'erano possibilità]: come fa uno a integrarsi se non ha un percorso da fare? Quindi lì non c'era nessun percorso da fare. All'interno del campo venivano reclutati i più giovani, che sono andati poi a finire a lavorare nelle varie fabbriche: mio padre, ad esempio, è stato poi assunto alla RIV cuscinetti a sfera, in via Nizza, ha cominciato a lavorare lì e ha sempre lavorato lì. Quindi da contadino è diventato un operaio di fonderia, e mio zio anche. Intano cominciava la ripresa della ricostruzione... Io poi sono andato a studiare in un istituto a Bene Vagienna, anche gli altri miei fratelli... Diciamo che il reclutamento da parte dell'industria o degli altri enti veniva fatto molto volentieri all'interno dei campi, perché queste persone - gli istriani - garantivano una pace sociale assolutamente garantita. E questo era dovuto al fatto che, e io me lo sono sentito dire proprio personalmente... Allora, la qualifica di profugo erano punti in più in tutti i concorsi, ma a parte il punteggio che deriva da una situazione di disagio, parlando a livello ideologico e politico, il profugo garantisce pace sociale. Il profugo istriano eh, parliamo di profughi istriani. Perché, comunque, venivano considerati tutti fascisti."

25) Questo era appunto un grosso stereotipo che ha da sempre accompagnato i profughi...

R.: "Me lo sono chiesto diverse volte se è uno stereotipo o no. Il fatto di essere fascisti, per gli istriani, non era una militanza fascista. Voglio dire, non è che uno era proprio indottrinato e convinto, aderente al 100% a una causa scelta. Era uno stato di nascita: uno è nato in quel modo e non ha altre visioni, non ha altri paragoni. L'istriano non lo sa [e diceva]: ma perché non posso essere tranquillamente fascista? Cosa c'è di male? Anche le altre nazioni hanno fatto la guerra, anche i giapponesi, anche i francesi , ognuno con le sue motivazioni. Il considerarli fascisti, derivava sostanzialmente proprio dal fatto che uno ha fatto la scelta addirittura di lasciare tutto, cioè la casa e tutti i beni... E la scelta di fare questo, agli occhi di molte persone, denotava una specie di assoluta adesione a un regime. Perché uno dice come, se lasci tutto è perché ci credi da matti, se no restavi lì!"

26) Poi c'è da dire un'altra cosa e cioè che agli occhi di molti militanti del Partito Comunista Italiano di allora, la Jugoslavia di Tito rappresentava il paradiso della classe operaia...

R.: "Esatto! E quindi il discorso era: ma come, rinunci al sol dell'avvenire... E questo ignorando il fatto che 2.000 partigiani di Monfalcone sono stati poi buttati a Goli Otok, con tutta una seria di casini inenarrabili, anche perché la storia non è poi così lineare come sui libri di scuola... Tornando a noi, [direi] che questa etichetta [di fascisti] deriva dal fatto che comunque la nostalgia degli istriani per la loro terra e per il loro modi di vivere nella loro terra, li caratterizza per fascisti perché, comunque, è nel loro dna, non per scelta ideologica, ma per scelta naturale. Io sono arrivato a questa conclusione. Poi uno gli dice: ma tu sei fascista, ma perché sei fascista? Eh, perché i comunisti mi hanno cacciato dalla mia terra. Ma lui lo era già prima che arrivassero i comunisti, ma lui non lo sapeva che cos'era!"

27) Alle Casermette c'era don Macario che aveva il compito di fare da tramite con le grandi aziende per la collocazione lavorativa dei giuliano-dalmati...

R.: "Questo non lo sapevo... Però il profugo garantiva alle aziende pace sociale. Ma persino a me lo hanno detto, nel 1978. Ho fatto domanda alla Robe di Kappa, quando era ancora in piedi, e dialogando col direttore in un colloquio pre-assunzione, gli avevo detto che ero profugo. Ah, profugo, molto interessante, molto interessante, noi la prenderemo di sicuro, mi ha detto. E questo a distanza di quanti anni... "

28) Si ricorda se alle Casermette ricevevate qualche tipo di assistenza come sussidio, pacchi dono e cose similari?

R.: "Non lo so, non lo so. I pacchi dono a natale venivano dalla Fiat o dalla Riv, però venivano dati indiscriminatamente, penso."

29) Dopo le Casermette, mi diceva di essere arrivato a Lucento...

R.: "Nel '56 vengono costruite a Lucento queste case dal Ministro Pastore, e quindi vengono assegnate a tutti i profughi, con criteri... Insomma, case a quattro piani senza ascensore, perché tanto erano tutti giovani, e adesso sono tutti vecchi e son tutti in crisi perché non riescono a fare le scale!"

30) Riesce a descrivermi com'era Lucento all'epoca?

R.: "Allora Lucento era un complesso residenziale che sembrava meraviglioso all'epoca. Io ero ragazzino e dicevo finalmente ci hanno dato la casa... E quindi era... Non c'era niente allora, mi ricordo infatti che c'era cento metri e poi c'erano prati, campi e boschi tutto intorno. Praticamente era una situazione tranquilla, molto, molto tranquilla. L'impressione era però che ci si sentiva, come dire, sempre un po' ghettizzati. Uso questa parola perché comunque si veniva visti [male]. Gran lavoratori gli istriani, affidabili, però, comunque... Ecco, quelle sono loro, sono le case dei profughi, e questa cosa del profugo, il profugo, il profugo tornava sempre. Il profugo è riconoscente per poco, perché ha bisogno di tanto, e se non ha niente piange. Quindi anche questo salto dove poi la Democrazia Cristiana ha sfruttato alla grande questa cosa. Perché poi io mi ricordo campagne elettorali a tappeto, casa per case, convocazioni di mio padre - che sono andato persino io una volta - con promesse, vieni, dammi il voto, noi ti faremo questo, di proteggiamo... Solo la Democrazia Cristiana però, altri partiti non ricordo di aver visto. Vede, il contrasto per un ragazzo... Cioè andare via dalla propria terra e venire in città e non avere un radicamento precedente, è stato... Io credo che noi istriani siamo tutti un po' strani, in generale, perché pur non avendo subito disgrazie qui in Italia, il trasformarsi da contadini a operai, è un trauma, e non si può descrivere quant'è grande questa cosa, come ha minato e ridotto i sentimenti delle persone, che sono rimasti un po' rancorosi - non so se lei ha notato - , a volte rivendicativi. E anche le associazioni degli istriani... Per esempio nessuno, nessun partito italiano si è preso carico del problema di questi 300.000 esuli, era un po' una patata bollente e nessuno voleva averci a che fare più di tanto: né i fascisti, né i comunisti - che i comunisti non sapevano come trattarli e cosa dire -, né i democristiani."

31) Lei arriva a Lucento all'età -più o meno- di dieci anni. Posso chiederle quali sono stati i suoi percorsi di integrazione nella città? Non so, parlo del tempo libero, dello sport, delle frequentazioni...

R.: " No,no, la vita avveniva tutta all'interno [del quartiere]. Cioè non era circondato da mura - e lei lo sa -, era tutto aperto, però si viveva lì. C'era l'oratorio come riferimento, c'era un bar per gli adulti, c'erano campi di calcio... Le scuole non erano all'interno del villaggio, bisognava andare un po' più in là, però noi vivevamo lì dentro senza avere nessun interesse per andare da un'altra parte, perché tanto soldi non c'è n'erano, quindi non c'era neanche la possibilità di fare chissà che. Quindi dal '56, poi io ho cominciato a lavorare nel '64, quindi era quel periodo dell'adolescenza, dove si, cominci ad andare in giro, si va, però si va senza... Come dire, come faccio io a trovare un collegamento in una città che non conosco, quali sono le strade che posso percorrere, mi devo inserire dove? In un circolo, in un'associazione sportiva, in un'associazione politica? Non c'era niente di tutto questo, non c'erano queste possibilità e si restava là. A un certo punto c'era una baracca dove c'era il Partito Socialista di Unità Proletaria che aveva la sua sede, c'era l'Associazione dei profughi, c'era la squadra di calcio, c'era l'oratorio, ma [era] tutto più o meno lì, senza particolari... Non ricordo riferimenti, cioè da dire vado là perché mi piace... Sapevo di essere, cioè eravamo consapevoli di essere tutti tra di noi, si parlava tutti in dialetto, però le amicizie nascevano all'interno di questa comunità, sapevamo di essere tutti tra di noi. Preferivamo essere così che non staccarci dal nostro contesto e cercare chissà cosa. Questo è avvenuto poi più in là, quando uno si trova a fare scelte di lavoro."

32) Le faccio ancora una domanda, poi abbiamo finito. Lei torna spesso in Istria e, in questi anni, ha maturato un senso di nostalgia per la sua terra?

R.: "Io ci torno, ci torno molto volentieri e tante volte. Mia madre ci torna, lei va in vacanza ogni anno da sua sorella a Isola, e quando l'accompagno e siamo lì, andiamo a fare tutto il giro dei posti: cimiteri, parenti e tutto. E quindi... Io non dico che ci tornerei a vivere lì, però, molti istriani hanno recuperato... Ah, ecco poi c'è tutta la storia del recupero dei beni abbandonati... Poi c'è anche la storia della carte d'identità, che io sono nato in Serbia - Montenegro, perché Montona in provincia di Pola, PL, per loro è Serbia-Montenegro! Forzano! Poi c'è il recupero dei beni, del tornare in possesso... E poi un'altra cosa [le voglio dire]: nelle pensioni INPS è compresa una quota ai superstiti e ai profughi, che era stata quantificata nel 1978, mi pare, in 30.000 Lire. 30.000 Lire che, nel corso del tempo, andavano indicizzate come la pensione: io sono andato in pensione cinque anni fa, e ho preso 15 Euro. Allora siccome questa situazione riguarda tutti, avevamo pensato di fare una specie di class action - due anni fa se ne era parlato - per recuperare, [perché] chi è andato in pensione nel 1975 ha preso 30.000 Lire e io che vado adesso prendo 15 Euro? Poi ci sono i beni, che sono persi, non c'è niente da fare... Poi ci sono i documenti: allora, io viaggio con nel portafoglio la legge firmata da Cossiga nel '75 o nel '78 [non ricordo con precisione]. Questa legge prevede tutti i comuni dell'Istria, sono elencati. Quindi c'è anche Montona, Rovigno e tutti quanti... Legato ai comuni c'è il codice che compare sul codice fiscale e c'è scritto che per tutti i nati in quei comuni sul codice fiscale va una particolare sigla e non è richiesta la provincia di appartenenza, e quindi tutte le amministrazioni devono adeguarsi facendo i programmi per gestire questi dati, in modo tale che uno legge Montona, non chiede la provincia e sa automaticamente che è Italia, anche se non c'è la provincia. Nessuno lo applica! Allora all'associazione degli istriani mi han detto chiama i carabinieri, perché devono farlo! E allora ci troviamo con una serie di documenti in cui in uno sono nato in Serbia-Montenegro - Montona in Serbia Montenegro, ma pensa te! - in un altro in Jugoslavia, in un altro Montona PL, ma PL cosa vuol dire, Polonia! E questa cosa qua è veramente assurda. Assurda e sgradevole, perché vuol dire che nessuno ci ha veramente messo l'impegno ad applicarla quella legge lì. Ed è fastidioso perché c'è da perdere tempo sempre e comunque."

33) Posso chiederle, poi abbiamo davvero finito, qual è stato il suo percorso lavorativo?

R.: "Io ho lavorato dieci anni, dal '64 al '74, in una fabbrica metalmeccanica qui a Torino, poi dal '74 ho cambiato altri cinque posti, sempre come dipendente e poi nel '90 ho rilevato un'attività di cornici, un negozio di cornici in via Buenos Aires e sono artigiano."
12/04/2010;


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dattiloscritto carta 14





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CD 1

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Miletto Enrico 21/11/2010
Pischedda Carlo 18/03/2013
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Come citare questa fonte. Intervista a Giuseppe M.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14593]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019